Onorevoli Colleghe e Colleghi! - La presente proposta di legge ha l'obiettivo di garantire l'attuazione delle direttive sulla parità di trattamento in maniera conforme alle disposizioni europee, con particolare riferimento alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e alla direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. In presenza di un sistema giuridico in cui tuttavia diversi individui o gruppi sociali a rischio di discriminazione sono soggetti a forme di protezione differenziata, e sostanzialmente più debole per alcuni, la presente proposta di legge si propone altresì di assicurare che l'ordinamento protegga in modo sostanziale il principio di parità di trattamento garantendo un medesimo livello di protezione a tutti i cittadini e gruppi sociali, indipendentemente dai motivi di discriminazione.

 

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      Per questa ragione il capo I della presente proposta di legge rivolge la propria attenzione in particolare alle discriminazioni motivate dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere, che per decenni sono state ignorate dal nostro sistema giuridico, di fatto negando a milioni di cittadini la garanzia del riconoscimento di quel principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale che la Costituzione della Repubblica solennemente enuncia all'articolo 3.
      Per decenni l'ordinamento italiano ha omesso di garantire qualsiasi forma di protezione contro atti o comportamenti dettati dall'omofobia e dalla transfobia, nonché di prevedere un divieto di discriminazione fondata sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere nonostante i numerosi richiami in tal senso delle istituzioni europee.
      L'Italia ha per anni sistematicamente ignorato la nota risoluzione del Parlamento europeo dell'8 febbraio 1994 sui diritti delle persone omosessuali, nonché le precedenti risoluzioni in materia antidiscriminatoria dello stesso Parlamento europeo, approvate fra il 1984 e il 1990, tra cui quella più dettagliata ed espressamente rivolta contro le discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale, proposta dall'eurodeputata italiana Vera Squarcialupi e approvata il 13 marzo 1984, e tutte quelle che più sinteticamente ribadivano la necessità che venissero adottate legislazioni antidiscriminatorie in vari campi dagli Stati membri, che tenessero conto fra le altre, e allo stesso titolo, anche della discriminazione fondata sull'orientamento sessuale (risoluzioni D'Ancona 11 giugno 1986, Parodi 26 maggio 1989, Buron 22 novembre 1989, Ford 23 luglio 1990). Tali risoluzioni sono state il prologo all'inclusione nel Trattato istitutivo della Comunità europea (articolo 13) di una disposizione sulla produzione di normative comunitarie antidiscriminatorie, che pone sullo stesso piano le discriminazioni basate sulle «tendenze sessuali» (eccentrica versione italiana della locuzione «orientamento sessuale» che compare nei testi inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e danese del Trattato) e quelle fondate su sesso, razza, origine etnica, religione, opinioni, handicap fisici o età; e i loro princìpi sono stati poi ribaditi nella risoluzione «Sulla parità di diritti per gli omosessuali nell'Unione europea» approvata dal Parlamento europeo il 17 settembre 1998 e nelle risoluzioni in materia di diritti umani approvate tra il 1996 e il 2005. Di simile avviso si è espresso negli anni il Consiglio d'Europa, la cui Assemblea parlamentare approva già il 1o ottobre 1981 la raccomandazione n. 924 «Sulla discriminazione contro gli omosessuali». Ancora, il 26 settembre 2000, la stessa Assemblea ha approvato, con una maggioranza del 77 per cento, la raccomandazione n. 1474, che nuovamente invita tutti gli Stati membri a introdurre una legislazione antidiscriminatoria esaustiva (oltre che a riconoscere la parità di diritti per le coppie omosessuali e a includere un divieto esplicito di discriminazioni basate sull'orientamento sessuale nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Tale voto seguiva quello del 6 giugno, in cui la stessa Assemblea parlamentare aveva approvato un'analoga raccomandazione, con la quale si invitavano gli Stati membri a includere la persecuzione degli omosessuali fra le ragioni del riconoscimento del diritto di asilo nel proprio territorio e a garantire il diritto di immigrazione per i partner di coppie binazionali formate da persone dello stesso sesso. Infine, un esplicito divieto di discriminazioni fondate, tra l'altro, sull'orientamento sessuale è stato inserito nell'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
      Allo stesso modo, il legislatore italiano ha ignorato la risoluzione del Parlamento europeo sulla discriminazione contro le persone transessuali del 1989, che indicava, tra le altre cose, la necessità di misure antidiscriminatorie esplicite, con particolare riguardo al settore del lavoro, e il riconoscimento del diritto d'asilo per le persone a rischio di persecuzione nel Paese d'origine a motivo della propria identità di genere, così come la raccomandazione
 

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dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa n. 1117 del 1989 sulla condizione delle persone transessuali, che richiamava con forza il principio di non discriminazione stabilito dall'articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
      Soltanto in seguito all'introduzione della direttiva 2000/78/CE sopra citata il legislatore italiano si è visto costretto a introdurre un divieto di discriminazione che includesse altresì l'orientamento sessuale. Così, per la prima volta nella storia del nostro ordinamento giuridico, il divieto di discriminazione fondato per l'appunto sull'orientamento sessuale è divenuto legge dello Stato. Tuttavia, non soltanto il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della norma comunitaria ha scelto un approccio minimale, non cogliendo le opportunità e gli spunti che venivano offerti da una lettura complessiva delle due direttive «gemelle» sulla parità di trattamento, la 2000/78/CE e la 2000/43/CE, come invece avvenuto nella maggior parte degli Stati membri dell'Unione europea, inclusi i Paesi candidati, ma ha introdotto disposizioni in palese violazione della norma comunitaria, che potrebbero prima o poi venire sanzionate dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. Il testo del decreto legislativo n. 216 del 2003, oltre a ignorare talune cruciali previsioni comunitarie, ha palesemente sfruttato in chiave restrittiva le «zone d'ombra» della direttiva 2000/78/CE, in particolare introducendo eccezioni generali e non circostanziate all'applicazione del principio di parità di trattamento: da ciò consegue il rischio che i princìpi contenuti nella direttiva restino lettera morta e che gli strumenti che erano stati determinati per garantire una protezione effettiva contro le discriminazioni siano inefficaci, soprattutto nei confronti di quegli individui o gruppi sociali che ancora sono vittime di stigmatizzazione sociale. Tale attuazione impropria e inadeguata non ha riguardato soltanto il decreto legislativo n. 216 del 2003, ma anche il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, relativo all'attuazione della direttiva sulla discriminazione razziale 2000/43/CE.
      Pertanto, nell'ambito della definizione di una disciplina antidiscriminatoria relativa all'orientamento sessuale e all'identità di genere adeguata agli standard stabiliti dalle istituzioni europee e introdotti ormai nella maggioranza dei Paesi dell'Unione europea (così come in numerosi altri Paesi, tra cui Canada, numerosi stati degli Stati Uniti, Australia, Repubblica Sudafricana, Nuova Zelanda, Messico), la presente proposta di legge, ai capi II, III e IV, intende ridefinire le norme di attuazione delle due direttive sulla parità di trattamento e di correggere le gravi omissioni e le stringenti limitazioni dei decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003.
      Come si è detto, il capo I la proposta di legge mira a introdurre specifiche misure antidiscriminatorie relativamente ai fattori dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere. In particolare, l'articolo 1 punisce i delitti motivati dall'odio omofobico e transfobico, così come l'incitazione all'odio omofobico e transfobico, estendendo la protezione già prevista dalla legge italiana in relazione all'istigazione e ai delitti motivati dall'odio etnico, religioso e razziale, con riguardo alle norme del 1975 di ratifica della Convenzione per l'eliminazione della discriminazione razziale e della più recente «legge Mancino» contro il razzismo (decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205). Nei delitti motivati dall'odio contro minoranze oggetto di pregiudizi diffusi, e alle conseguenze dell'atto delittuoso, si aggiunge un chiaro intento, che va sanzionato, volto a terrorizzare e ad escludere dalla vita sociale un'intera categoria di individui. Il fatto stesso che la legge abbia escluso l'odio omofobico o transfobico dalla protezione garantita ad altri gruppi sociali, e approvato un generico quanto ineffettivo ordine del giorno che ammetteva il problema senza risolverlo, può essere pericolosamente avvertito come una forma di gerarchizzazione dei gruppi a rischio di discriminazione e di manifestazioni
 

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d'odio e un chiaro segnale di disinteresse da parte dell'ordinamento a proteggere un gruppo sociale che può, proprio per questo, determinare un incremento di episodi di odio nei confronti del gruppo escluso. Sono noti i numerosi casi di omicidi, in particolare a danno delle persone transgender, motivati esclusivamente dalla loro identità di genere, verificatisi anche nel nostro Paese, come in altri, dell'Unione europea. Inoltre, la particolare violenza e incitazione all'odio omofobico da parte di forze di estrema destra in Italia, così come in altri Paesi europei, ha indotto il Parlamento europeo ad approvare il 18 gennaio scorso, a grande maggioranza, con voto favorevole di gran parte dei membri del partito popolare, una risoluzione sull'omofobia in Europa che paragona l'omofobia e la transfobia al razzismo, al sessismo e all'antisemitismo e invita gli Stati membri a prendere misure di carattere penale proprio per contrastare tali fenomeni e misure antidiscriminatorie alla stregua di quelle già previste per altre forme di discriminazione, che non si limitino pertanto alla sola parità di trattamento relativa all'occupazione ed alle condizioni di lavoro.
      L'articolo 2 si rivolge in particolare alla protezione degli studenti rispetto a prassi o comportamenti discriminatori, di intolleranza o di semplice dileggio nell'ambito delle attività didattiche o dei corsi di informazione ed educazione sessuale, considerato il particolare impatto traumatico che tali atti possono avere nella fase evolutiva di giovani e adolescenti. L'omofobia e la transfobia, in un ambiente che non favorisce il dialogo sulle diverse identità sessuali e di genere, rappresentano infatti problemi sociali che possono essere causa di suicidio in soggetti in fase evolutiva, come risulta da studi sociologici e psicologici effettuati, tra cui si può citare quello di Luca Pierantoni su «Il tentato suicidio negli adolescenti omosessuali».
      L'articolo 3 stabilisce l'illiceità di ogni riferimento e di ogni indagine relativi all'orientamento sessuale dell'assicurato o dell'assicurando nei contratti di assicurazione sanitaria e nel loro procedimento di formazione, e la nullità dei patti tendenti a rendere più oneroso per l'assicurato il contenuto di tali contratti in dipendenza del suo orientamento sessuale. In tale caso, il contratto è tuttavia valido (la precisazione potrebbe essere necessaria, dato che la nullità della clausola discriminatoria, colpendo la determinazione dell'entità del premio e/o dell'entità della controprestazione, rischierebbe di fare considerare indeterminato il contenuto) e la sua durata è anzi automaticamente prorogata a tempo indeterminato nell'interesse dell'assicurato; è anche prevista la sospensione della prescrizione dell'azione tendente a ottenere la restituzione di quanto pagato in eccesso per tutta la durata del rapporto fino alla sua cessazione (in modo che la ripetizione possa sempre essere richiesta per intero, anche da eventuali eredi, qualora condizionamenti sociali impedissero all'assicurato di far valere i propri diritti in vita), o fino a che non sia richiesto l'accertamento giudiziale della nullità delle clausole discriminatorie.
      L'articolo 4 intende garantire il diritto d'asilo al cittadino straniero perseguitato nel Paese d'origine a motivo del proprio orientamento sessuale o dell'identità di genere. Tale prassi è in vigore in diversi Paesi europei, e vi sono a riguardo decisioni favorevoli da parte della giurisprudenza italiana. Si tratta pertanto di garantire tale diritto per legge, così come il divieto di espulsione, considerato che in otto Paesi del mondo gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso sono puniti con la pena di morte, e le attività sessuali appena citate costituiscono ancora fattispecie di reato in oltre ottanta Paesi del mondo, ove le organizzazioni internazionali per la protezione dei diritti dell'uomo, così come gli special rapporteurs delle Nazioni Unite, denunciano torture, pene e trattamenti inumani, degradanti e umilianti, esecuzioni extragiudiziali e sommarie, detenzioni illegali e arbitrarie nei confronti di gay, lesbiche, transgender.
      L'articolo 5 si propone invece di estendere la protezione prevista dal decreto legislativo n. 216 del 2003, come modificato
 

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dalla presente proposta di legge, alla discriminazione fondata sull'identità di genere, per garantire alle persone transessuali e transgender lo stesso livello di protezione estesa che, in seguito alle modifiche introdotte dal presente provvedimento, sarebbero offerte agli altri fattori di discriminazione. Allo stesso modo ci si propone di aggiungere l'identità di genere al divieto di discriminazione previsto dall'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il cosiddetto «Statuto dei lavoratori».
      Il capo II, come anticipato, modifica le disposizioni del decreto legislativo n. 216 del 2003 di attuazione della direttiva 2000/78/CE.
      Se l'articolo 6 ed il comma 1 dell'articolo 7 precisano e migliorano rispettivamente lo scopo della norma e la definizione del principio di parità di trattamento, il comma 2 dell'articolo 7 include nella definizione di discriminazione diretta e indiretta l'atto di ritorsione nei confronti di chi si sia opposto, mediante un'azione, non necessariamente di carattere giudiziale, a un comportamento, un atto o una prassi discriminatori, rafforzando in questo senso quanto disposto dal legislatore al comma 6 dell'articolo 4 del decreto legislativo n. 216 del 2003.
      L'articolo 8 si pone in primo luogo il proposito di uniformare la disciplina interna di attuazione alla norma comunitaria. In tal senso il comma 1 precisa quanto omesso dal legislatore italiano in riferimento all'ambito di applicazione del principio di parità di trattamento. I commi 4 e 6, invece ridefiniscono la nozione di eccezione allo stesso principio di parità di trattamento in relazione ai cosiddetti «requisiti occupazionali», rimuovendo un'eccezione prevista dal legislatore italiano relativa alle attività delle Forze armate, di polizia, penitenziarie e di soccorso che non soltanto non era contemplata dalla direttiva, ma era in palese violazione della stessa, oltre che contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di discriminazione fondata sull'orientamento sessuale nelle Forze armate nei casi Lustig-Prean and Beckett contro Regno Unito e Smith and Grady contro Regno Unito. Il comma 5 ridefinisce la norma relativa agli accertamenti di idoneità la cui formulazione contenuta nell'articolo 3, comma 3, del decreto legislativo n. 216 del 2003, appare di dubbia interpretazione, e che pare al contrario aprire la strada a una generica eccezione al principio di parità di trattamento. Il comma 7, nel determinare in modo conforme alla direttiva le circostanze in cui disposizioni, criteri e prassi non costituiscono forme di discriminazione indiretta, abroga il riferimento ai reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile, che oltre a non aggiungere nulla alla disciplina già vigente in materia, nulla ha a che vedere con il decreto in oggetto, ma pare perseguire l'obiettivo di associare la pedofilia all'omosessualità, rafforzando il pregiudizio anziché combattere la discriminazione. I commi 2 e 3 si pongono un obiettivo diverso, ovvero l'ampliamento della protezione sulla parità di trattamento con riferimento all'assistenza sanitaria, alla protezione sociale, all'istruzione, all'erogazione di beni e servizi, incluso l'alloggio, ai fattori di discriminazione previsti dalla direttiva 2000/78/CE; in altri termini attraverso questi commi si garantisce una identica protezione contro le discriminazioni a tutti gli individui, indipendentemente dal motivo della discriminazione. L'introduzione di norme di maggior favore, già stabilite dalla direttiva 2000/43/CE in riferimento all'origine etnica e razziale, è stata effettuata in diversi Paesi europei, nonché ribadita dal Parlamento europeo nella risoluzione contro l'omofobia del gennaio scorso, e la stessa Commissione europea sta valutando un ampliamento della protezione della direttiva 2000/78/CE in tal senso.
      L'articolo 9 riforma alcune delle disposizioni inerenti alla tutela giudiziale prevista dal decreto legislativo n. 216 del 2003, in particolare introducendo al comma 1 quella che è stata una delle più significative e clamorose omissioni del provvedimento di attuazione della norma comunitaria, ovvero l'assenza di previsioni
 

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relative all'inversione dell'onere della prova: il comma in oggetto si propone di introdurre la disciplina già prevista al riguardo dalle norme in materia di pari opportunità. Il comma 3 introduce una misura, anch'essa prevista dalla legge 10 aprile 1991, n. 125, sulle azioni positive in materia di pari opportunità tra uomo e donna, volta a garantire l'efficacia tempestiva del provvedimento del giudice finalizzato alla cessazione del comportamento discriminatorio e alla rimozione dei suoi effetti.
      L'articolo 10 interviene a sanare un'altra situazione di palese violazione della norma comunitaria, prevedendo che le associazioni e le organizzazioni portatrici di interessi specifici siano legittimate all'azione in giudizio, come richiesto dalla direttiva 2000/78/CE.
      L'articolo 11 mira a introdurre una previsione relativa al dialogo sociale e con le organizzazioni non governative che era richiesto dalla norma comunitaria e non considerato dal legislatore nazionale: in particolare il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con gli altri Ministeri competenti, le regioni e gli enti locali, è chiamato a farsi carico di attività di consultazione, monitoraggio, elaborazione di codici di comportamento e buone pratiche.
      Agli stessi enti viene riconosciuto inoltre, dall'articolo 12, un ruolo nella diffusione di informazioni relative alle norme in materia di parità di trattamento, come già richiesto dal legislatore comunitario.
      L'articolo 13 rende esplicito che tutte le norme contrattuali contrarie al principio della parità di trattamento sono considerate nulle.
      All'articolo 14 ci si propone di sanare una ulteriore violazione della direttiva introdotta dall'articolo 10 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il quale conteneva un'eccezione indiscriminata al principio di parità di trattamento con riferimento al divieto di indagini da parte delle agenzie per il lavoro, andando a indebolire uno dei momenti più delicati del rapporto di lavoro, ovvero l'accesso al lavoro.
      Il capo III istituisce e configura una Autorità per la lotta alle discriminazioni. L'obbligo di istituire una autorità indipendente è prevista dalla direttiva 2000/43/CE con il solo riferimento alla discriminazione etnica e razziale. Il decreto legislativo n. 215 del 2003 di attuazione della direttiva stessa aveva istituito un Ufficio per il contrasto delle discriminazioni, abrogato dall'articolo 22 della presente proposta di legge, interno al Ministero per le pari opportunità e disciplinato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Tale configurazione violava evidentemente il requisito dell'indipendenza dell'organismo richiesto dalla direttiva.
      Inoltre, laddove la grande maggioranza dei Paesi europei, inclusi i Paesi di recente adesione, avevano esteso le competenze dell'organismo di parità a tutti i motivi di discriminazione, sia quelli previsti data direttiva 2000/43/CE che dalla direttiva 2000/78/CE, il legislatore italiano aveva optato per una soluzione modesta e minimale, che costituisce quasi un unicum in Europa. Gli articoli da 15 a 21 intervengono su tale questione, istituendo una autorità collegiale indipendente, formata da quattro componenti eletti dai due rami del Parlamento a garanzia dell'indipendenza dell'organismo su modello delle autorità garanti già previste dall'ordinamento italiano. E proprio alle norme che configurano il Garante per la protezione dei dati personali si ispira l'articolo 15 nel delineare la figura, i diritti e i doveri dell'Autorità.
      L'articolo 16 individua i compiti della nuova Autorità, sia basandosi sui requisiti previsti dalla direttiva 2000/43/CE rispetto agli organismi di parità, sia ispirandosi alle autorità indipendenti già istituite in Europa, tra cui l'Alta autorità per la lotta contro le discriminazioni francese, l'Ombudsman svedese contro la discriminazione fondata sull'orientamento sessuale, la Commissione generale per la parità di trattamento olandese, l'Autorità per la parità irlandese: l'Autorità italiana avrebbe pertanto simili funzioni di monitoraggio, di diffusione delle informazioni, di formulazione di raccomandazioni e pareri,
 

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di elaborazione di riforme legislative, di promozione di studi e ricerche, di definizione ove necessario di azioni positive, di assistenza alle vittime della discriminazione, di comunicazione al Parlamento e al Governo in merito all'attuazione del principio di parità di trattamento, di decisione sul ricorso amministrativo istituito dalla presente proposta di legge.
      L'Autorità è dotata di un ufficio, definito dall'articolo 17, il cui funzionamento, proprio allo scopo di garantire piena indipendenza, è disciplinato da un regolamento approvato dall'Autorità stessa, sul modello delle autorità garanti. Le norme della presente proposta di legge in materia di disciplina del personale sono allo stesso modo ispirate alle disposizioni già in vigore con riguardo alle autorità garanti, ivi inclusa la possibilità di avvalersi della consulenza di esperti.
      L'articolo 18 definisce un nuovo strumento di tutela extragiudiziale per la vittima della discriminazione, rappresentato dal ricorso all'Autorità. L'idea del ricorso si ispira a quanto previsto dalle direttive 2000/78/CE e 2000/43/CE, che indicavano l'opportunità di introdurre strumenti di tutela giudiziale e amministrativa. Con il ricorso all'Autorità si rimedierebbe alla lacuna del legislatore italiano in proposito.
      Come specificato all'articolo 19, il ricorso prevede requisiti minimi di forma ed è alternativo al ricorso giudiziale (fatta salva la possibilità di agire in giudizio in opposizione al provvedimento dell'Autorità o al rigetto del ricorso stesso). Allo stesso modo, il procedimento è caratterizzato da particolare speditezza (il ricorso si ritiene rigettato nel caso in cui l'Autorità non provveda entro quarantacinque giorni) e consente alle parti di addivenire a una soluzione concordata, su proposta del ricorrente e con accettazione della controparte. In assenza di accordo, l'Autorità è investita dei poteri che consentono di svolgere accertamenti e perizie e di sentire le parti, allo scopo di addivenire a un provvedimento che, come indicato in precedenza, è impugnabile innanzi al tribunale, ma, in assenza di opposizione, è obbligatorio per le parti (l'inosservanza è punita con sanzione amministrativa ed è impugnabile innanzi al tribunale). Ove necessario, l'Autorità può assumere provvedimenti temporanei allo scopo di far cessare o rimuovere gli effetti della discriminazione.
      In relazione ai poteri dell'Autorità, l'articolo 20 determina le modalità di esecuzione degli accertamenti e delle indagini, sul modello dei poteri a riguardo già previsti per il Garante per la protezione dei dati personali.
      Infine, il capo IV della presente proposta di legge si propone di uniformare le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 215 del 2003 sulla discriminazione etnica e razziale a quelle del decreto legislativo n. 216 del 2003. Il legislatore italiano ha infatti seguito uno schema pressoché identico nel delineare i due decreti di attuazione delle direttive comunitarie, con talune differenze, per lo più relative all'ambito di applicazione e all'organismo di parità, che la presente proposta di legge intende rimuovere. A tale fine, pertanto, gli articoli da 22 a 29 riprendono in modo pressoché speculare le disposizioni previste dal capo II della presente proposta allo scopo di garantire che la disciplina sulla parità di trattamento sia pienamente uniforme, indipendentemente dal motivo della discriminazione. Occorre notare che questo è l'orientamento che progressivamente stanno assumendo tutti i Paesi dell'Unione europea e che in un futuro non lontano diverrà con tutta probabilità un obbligo a cui comunque il legislatore italiano si dovrà uniformare con l'evolvere del diritto comunitario.
 

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